lunedì 19 gennaio 2009

Petrolio, investimenti fermi

I margini si riducono e le compagnie tagliano le spese di R&S, spiega Il Sole 24 Ore

Nuove esplorazioni abbandonate in corsa. Investimenti decurtati al lumicino. Licenziamenti di massa. Tagli ai contratti dei fornitori. È uno scenario drammatico quello che sta provocando il raffreddamento del barile a 36,5 dollari, con la riduzione dei budget di spesa da parte dei Paesi esportatori e dei grandi colossi petroliferi.L'ultima conferma arriva da due delle principali major, ovvero la francese Total e la statunitense ConocoPhillips. La terza maggiore società petrolifera europea vuole posticipare l'avvio di alcuni progetti esplorativi a causa del drastico calo dei profitti, come dimostreranno i risultati dell'ultimo trimestre 2008, che saranno diffusi nei prossimi giorni. Una retromarcia arrivata a sorpresa, visto che fino ad oggi il colosso guidato da Christophe de Margerie era stato tra i pochi a confermare un budget 2009 superiore a quello del 2008. Eppure il tracollo del greggio è stato più forte delle promesse. Ora in discussione ci sono anche i progetti nei blocchi al largo dell'Angola e del Canada, molto redditizi proprio perché costosi.Ancora più esplicita la decisione di ConocoPhillips. Nel 2009 il terzo colosso petrolifero statunitense decurterà le spese per nuovi giacimenti a 12,5 miliardi di dollari, il 18,3% in meno rispetto al 2008. A diminuire sarà anche la forza lavoro, che verrà ridotta del 4%, pari a 1.350 unità.Sono questi gli ultimi segnali di allarme di un'industria che negli ultimi anni ha avviato esplorazioni su larga scala nella convinzione che i prezzi del greggio potessero solo lievitare. Oggi, con un barile Wti in calo del 75% rispetto allo scorso luglio, quando valeva 147 dollari, le major si trovano alle prese con un problema: troppe spese di fronte a ricavi sempre più risicati. Dal Canada fino alla Russia,l'imperativoè rivedere i piani di crescita. Il tutto nella speranza che le quotazioni riprendano ossigeno.La giravolta del Venezuela Il Venezuela, uno dei maggiori esportatori al mondo, ha dovuto perfino mettere da parte gli ideologismi nazionalistici per convertirsi a un più urgente pragmatismo.Hugo Chavez starebbe infatti corteggiando alcune compagnie petrolifere occidentali - tra cui Chevron, Royal Dutch/Shell e la stessa Total - per convincerle a sviluppare le riserve del Paese. L'obiettivo del presidente sudamericano è puntellare l'attività della società nazionale Petròleos de Venezuela, continuare l'estrazione e salvare così anche i programmi di sviluppo del welfare statale. Più che un'apertura, un'autentica svolta, visto che la decisione segue a ruota la nazionalizzazione, avvenuta nel 2007, di tutti i siti petroliferi nazionali. Ma il possibile ingresso di società private occidentali in una delle più grandi riserve di greggio al mondo (Orinoco Belt, l'area sud venezuelana che contiene 235 miliardi di barili di petrolio), rivela quanto sia urgente il problema dei prezzi per chi fino ad oggi ha potuto contare su quotazioni alle stelle.Le strategie in campo Nell'attesa di un nuovo probabile taglio dell'output a marzo, che nelle speranze dell'Opec dovrebbe risollevare i listini, anche le altre major corrono ai ripari. Nei giorni scorsi la norvegese StatoilHydro ha tagliato il budget 2009 a 13,5 miliardi di dollari dai 16 miliardi del 2008. Analoga la decisione della britannica Premier Oil, che ha rimandato al 2010 il raggiungimento dei target produttivi a causa della riduzione dell'estrazione in Vietnam e in Norvegia.