domenica 5 aprile 2009

Campagna di Russia per il Made in Italy

I fuochi artificiali si vedranno tra lunedì 6 e giovedì 9 aprile. Ma le polveri sono già state preparate. La missione italiana d’aprile in Russia, guidata dal ministero per lo Sviluppo economico assieme a Ice e Confindustria, porterà a Mosca, San Pietroburgo, Ekaterinburg, Krasnodar e Novosibirsk circa 500 aziende. Di queste, una trentina sono quotate a Piazza Affari. Si va dalla meccanica (Carraro, Biesse, Brembo, Prima Industrie) alle infrastrutture (Buzzi, Maire Tecnimont, Trevi, Telecom e Prysmian, che ha annunciato venerdì 3 aprile una commessa da 20 milioni a San Pietroburgo), dalle banche (Mps, Banco Popolare, Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Unicredit) fino all’alimentare (Cremonini, La Doria). Si attendono annunci significativi: per esempio, si parla di un accordo in arrivo per Maire Tecnimont. Soprattutto, però, il viaggio a Mosca dovrebbe rivelarsi cruciale per le tre grandi partecipate del Tesoro: Finmeccanica (vedere articolo a pagina 21) e le «cugine» Eni ed Enel. Queste hanno un tavolo comune di negoziato con Gazprom. Dal quale potranno uscire indicazioni chiave sul futuro delle due società in terra di Russia e non solo. Al punto che l’ad di Eni, Paolo Scaroni, già giovedì 2 aprile era a Mosca per parlare con il presidente di Gazprom Alexey Miller. Per preparare le polveri, appunto. AFFARE GAZPROM. Il negoziato con il colosso russo del gas è determinante per Eni dal punto di vista finanziario. Gazprom ha in mano una call che risale a due anni fa (coincidenza, al 4 aprile 2007), quando l'Eni guidata da Paolo Scaroni ed Enel pagarono 5,8 miliardi di dollari per l’asta degli asset petroliferi della fallita Yukos. Nel pacchetto c’era anche il 20% della ex-Sibneft (oggi Gazpromneft) che la sola Eni si impegnò a rilevare in una sorta di portage per Gazprom. Cui, appunto, l’avrebbe rigirato due anni più tardi (dunque, oggi) per un valore di 3,7 miliardi oltre ai costi dell’operazione. Scaroni, nel corso della presentazione del bilancio a Londra a metà febbraio, aveva parlato di un valore di 4,3 miliardi di dollari, per un rendimento del 9% annuo. Un bel pacchetto di denaro, già previsto nei budget del Cane a sei zampe. Tanto che la prospettiva di una rinuncia (o un rinvio al 2012) dell’esercizio della call da parte dei russi aveva messo in allarme il listino sul rischio che Eni potesse trovarsi a corto di liquidità e dovesse in qualche modo ricorrere al mercato. Lo stesso Scaroni aveva parlato chiaro: «Se Gazprom non esercita l’opzione, Eni diventa d’emblée una società diversa, con un balzo immediato del 10% dell’output, ma con la necessità di rivedere il proprio piano strategico, a cominciare dalle acquisizioni». I presupposti per un dietrofront dei russi c’erano, alla luce della crisi finanziaria del Paese. Per giunta, oggi il 20% di Gazpromneft vale in Borsa circa 2 miliardi di dollari, dunque assai meno dello strike price della call. (Da Borsa & Finanza)