giovedì 24 giugno 2010

Censis, un'industria con un valore sociale

L'industria energetica italiana ha un "valore sociale" alla luce dei 230 miliardi di euro di fatturato, dei 118 mila addetti, degli investimenti sul territorio per almeno 16 miliardi di euro l'anno. E' quanto evidenzia un'analisi del Censis per conto di Confindustria Energia da cui emerge tuttavia che servono politiche di medio-lungo termine. Due i rischi potenziali: la farraginosita' delle procedure autorizzative a livello nazionale e territoriale, insieme alla forte conflittualita' locale innescata dalla realizzazione di nuove infrastrutture, possono determinare il blocco degli investimenti, sia nell'ambito dello sfruttamento delle risorse energetiche nazionali, sia in quello delle fonti rinnovabili. La carenza di adeguate politiche energetiche di medio-lungo termine puo' determinare un impoverimento tecnologico e delle competenze che storicamente in Italia ci sono state e continuano ad esserci, riducendo il Paese a mero importatore di prodotti e tecnologie. In ogni caso, i numeri parlano di un'industria sana. La platea degli utenti dell'energia e' composta da milioni di cittadini e di imprese che la utilizzano quotidianamente nelle sue varie forme e per vari scopi. Per usi civili, i 24 milioni di famiglie italiane consumano annualmente 68,4 TWh di energia elettrica, 30,2 miliardi di metri cubi di gas naturale (i Comuni serviti sono 6.500, le utenze sono 21,4 milioni), 2,2 milioni di tonnellate di Gpl (1,6 milioni di utenze con piccoli serbatoi, 25 milioni di bombole in circolazione, 640 Comuni serviti da reti urbane Gpl), 2 milioni di tonnellate di gasolio per riscaldamento. Nei trasporti, vengono consumati 11 milioni di tonnellate di benzina l'anno (da 19,4 milioni di automobili), 26 milioni di tonnellate di gasolio (da 12,8 milioni di automobili, 4,3 milioni di veicoli commerciali e industriali e 93.200 autobus), 1 milione di tonnellate di Gpl (da 1,1 milioni di veicoli) e 670 milioni di metri cubi di gas naturale (da 506 mila veicoli).
(AGI)

martedì 15 giugno 2010

Cina: tasse sulle risorse naturali

Sarà la problematica regione autonoma dello Xinjiang, dove il confronto e lo scontro anche violento tra la popolazione autoctona dei musulmani uiguri e i coloni han cinesi non è mai cessato, a sperimentare il prelievo di tasse sulle risorse naturali che poi dovrebbe essere applicato a livello nazionale per contribuire a risparmiare risorse. Il governo comunista cinese ha preso ieri la decisione di istituire una nuova tassa sulle vendite di greggio e gas nello Xinjiang, presentando la cosa come un elemento di quel Piano di sostegno alla regione autonoma che era stato presentato a maggio in un workshop tenutosi a Pechino.

Un comunicato dell'Amministrazione di Stato per gli affari fiscali spiega che «Lo Xinjiang é ricco di risorse minerarie quali il petrolio greggio e il gas. Questa iniziativa pilota aiuterà a lanciare su scala nazionale una riforma delle tasse sulle risorse naturali. La riforma valorizzerà il concetto di risparmio delle risorse avanzato dal governo, la protezione dell'ambiente e lo sfruttamento ragionevole delle risorse naturali. Questo prelievo contribuisce anche alla realizzazione di una società che economizza le risorse e rispettosa dell'ambiente».

Il governo prelevava già prima tasse che potevano arrivare fino a 30 yuan (4,39 dollari) alla tonnellata sulle vendite di petrolio greggio e a 15 yuan per 1.000 m3 su quelle di gas naturale. In Cina il costo del greggio è agganciato a prezzi internazionali, mentre quello del gas è fissato dal governo centrale di Pechino, questo secondo l'Amministrazione di Stato per gli affari fiscali renderebbe più agevole istituire la nuova tassa che prevede un cambiamento in rapporto alle vecchie tasse basate sul prezzo alla produzione e fissa il tasso di prelievo al 5%.

La decisione "sperimentale" del governo arriva proprio mentre Lu Xuedu, il potente vice-presidente del Centro climatico nazionale della Cina ed ex membro del comitato esecutivo dell'Onu per l'approvazione dei progetti del Clean development mechanism (Cdm), stava dicendo ai giornalisti a Pechino che in Cina i volumi delle transazioni di carbonio sono destinato a rimanere bassi «Il mercato interno rimarrà probabilmente piccolo, perché basta farsi una semplice domanda: chi comprerà le emissioni in Cina?». Il problema è che, secondo il Protocollo di Kyoto, la Cina non ha nessun obbligo di ridurre le sue emissioni di CO2 e che quindi, secondo Lu, «I soli potenziali acquirenti sul mercato interno sono le grandi imprese o le celebrità ad alto reddito che cercano di migliorare la loro reputazione».

La Cina finora è stata un fornitore e non un acquirente di carbon credits, ma resta un Paese centrale all'interno del Cdm per l'enorme potenziale degli investimenti dei Paesi industrializzati in progetti di energie rinnovabili, risparmio energetico e recupero ambientale, un meccanismo noto come Certified emission reductions (Cer) che possono essere commercializzati o utilizzati dai Paesi industrializzati per rispettare i loro obiettivi nazionali vincolanti di emissioni di CO2.

Attualmente la Cina è il più grande fornitore di Cer a livello mondiale, ma i "developers" non sono stati ammessi a contrattare i crediti sul mercato interno. Per questo molte città, comprese metropoli gigantesche come Pechino e Shanghai puntano sui "new environmental exchanges", sperando che il mercato volontario delle emissioni riesca a colmare il divario tra le promesse del governo e la realtà dei fatti. Però, i volumi delle voluntary emission reductions (Ver) si sono rivelati trascurabili. In Cina ci sono stati solo circa 3.000 Ver, più o meno per un volume complessivo di 10.000 tonnellate. Una goccia rispetto ai 93 milioni di tonnellate di Ver che, secondo un rapporto pubblicato dal Bloomberg New Energy Finance, sarebbero state scambiate nel 2009, con un preoccupante calo del 27% rispetto al 2008.

«Su un totale di 2.214 progetti Cdm approvati dal Comitato esecutivo entro la metà di maggio, 851 hanno origine in Cina, il che la rende il Paese con il maggior "successo" Cdm - ha spiegato Lu - Ma c'è un arretrato di oltre 1.600 progetti cinesi ancora in attesa di approvazione». Questa posizione dominante della Cina nel meccanismo Cdm è molto criticata e desta ancora maggiori sospetti: in parecchi accusano le imprese cinesi e il governo comunista di produrre grandi quantità di progetti di bassa qualità che, con la scusa di tagliare le emissioni industriali alla fine hanno effetti molto dubbi sul reale taglio di sostanze come gli idrofluorocarburi e il protossido di azoto. Per questo il Comitato esecutivo Cdm è alle prese con un'enorme mole di controlli di qualità soprattutto riguardo agli impianti eolici che avrebbero già prezzi favorevoli rispetto all'energia prodotta e quindi non ammissibili ai finanziamenti Cdm, ora i controlli riguardano anche le centrali idroelettriche». Lu però sottolinea che «Il problema più grande per l'attuale mercato Cdm è la domanda, che rimane incerta quanto i potenziali investitori e sviluppatori di progetti chiedono chiarezza su ciò che accadrà dopo il 2012».

Lu Xuedu guarda con preoccupazione alla scadenza del Protocollo di Kyoto nel 2012 ma soprattutto è convinto che «Se gli Stati Uniti non avranno adottato la loro legislazione sul clima entro la fine di luglio, sarà improbabile che un nuovo accordo vincolante possa essere siglato a Cancun alla fine di quest'anno».
(www.greenreport.it)

mercoledì 2 giugno 2010

Marea nera: BP sottovalutò il dossier rischi

Le catastrofiche conseguenze dell’esplosione che lo scorso 20 aprile ha coinvolto la piattaforma Deepwater Horizon sono ormai sotto gli occhi di tutti. L’ondata di greggio che ancora oggi si riversa nella acque del Golfo del Messico ha provocato la rivolta di attivisti e associazioni ambientaliste, spingendo anche il presidente Barack Obama a prendere una posizione severa nei confronti della British Petroleum.

Ogni tentativo di arginare la fuoriuscita si è finora rivelato vano e la situazione si fa più grave di giorno in giorno, sulle coste statunitensi così come nelle aule di tribunale. Pare infatti che l’azienda, stando ad alcuni documenti emersi nel corso delle indagini, a partire dal 2009 abbia più volte sottovalutato alcuni dossier riguardanti proprio possibili esplosioni.

Il rivestimento della tubazione connessa e le condizioni della valvola ausiliaria anti-esplosione sono tra i fattori di rischio che ricorrono più spesso nelle relazioni firmate da ingegneri e addetti ai lavori sulla piattaforma, gli stessi che poi andranno a contribuire in modo decisivo ad innescare la catena di eventi ormai noti. Nel mese di marzo la gestione del pozzo già risultava problematica.

Risale al 22 giugno 2009, come riporta Repubblica.it, un rapporto con il quale gli esperti avvisavano la società della possibilità che il metallo impiegato per rivestire la tubazione potesse cedere a una pressione troppo elevata. Ancora, nelle ore immediatamente precedenti all’esplosione, la strumentazione aveva rilevato temperature troppo elevate all’interno dell’impianto, spingendo i vertici aziendali a prendere decisioni repentine e palesemente errate, come evidenziato da alcune testimonianze depositate la scorsa settimana nel corso delle udienze.

Uno dei più grandi disastri ambientali della storia poteva realmente essere evitato? Cosa ha spinto la BP a sottovalutare alcuni allarmanti dossier riguardanti reali pericoli per la piattaforma?

Nel frattempo, anche l’operazione Top Kill si è risolta in un nulla di fatto; il fango iniettato non ha bloccato la fuoriuscita di greggio. Nei prossimi giorni verrà effettuato un nuovo tentativo, con una strategia diversa, ma i risultati non saranno apprezzabili in tempi brevi.
(onegreentech.it)