B llettino di guerra o quasi dai Paesi emergenti. La crescita cinese rallenta. I produttori di petrolio e gas faticano a fronteggiare l'improvviso calo dei prezzi. La borsa russa chiude i battenti a intermittenza. Il campanello alla porta del Fondo monetario internazionale, arrugginito da anni di crescita globale, riprende a suonare. La marea della crisi finanziaria, insomma, ha raggiunto le coste lontane dei Paesi in rapido sviluppo. Le ultime locomotive con ancora un po' di vapore rallentano: con quali implicazioni per la soluzione della crisi stessa e soprattutto per le sue ricadute sull'economia reale? Giustamente la settimana scorsa il Governatore Mario Draghi ha aperto la sua relazione al Senato sulla crisi finanziaria ricordando come questa abbia origine «nei cambiamenti strutturali che hanno caratterizzato negli ultimi anni l'economia globale», nella straordinaria crescita dei Paesi emergenti accompagnata da profondi squilibri macroeconomici, soprattutto «una cronica carenza di risparmio, particolarmente negli Stati Uniti». Capire il ruolo di questi Paesi nella nuova economia globale ci aiuta anche a far luce sugli effetti del loro rallentamento.I punti essenziali sono tre. Il primo è il loro contributo alla crescita. Se ancora nel 2007 il prodotto interno lordo reale mondiale è cresciuto del 5%, questo è in gran parte riconducibile all'espansione della Cina (da sola vale il 10% del Pil globale) e delle altre economie emergenti. Il secondo è che per molti di questi Paesi la crescita è stata trainata dalle esportazioni e dunque ha generato straordinari surplus di bilancia commerciale e accumuli di riserve, in gran parte confluite a finanziare il deficit di risparmio, soprattutto americano. A fine agosto 2008 il 46% dei titoli del Tesoro Usa detenuti da stranieri era nelle mani dei Paesi emergenti: un controvalore di 541 miliardi di dollari per la sola Cina (307 per la Gran Bretagna e 41 per la Germania, per avere un paragone).
(Dal Sole 24 Ore)