Il prezzo del petrolio ieri ha chiuso a New York in ribasso del 10,3% a 40,15 dollari al barile dopo aver toccato un minimo di giornata a 39,84. Si è trattato del più forte calo in due mesi. L'andamento negativo è dovuto all'incertezza sui listini e ai timori per l'aggravarsi della recessione, che potrebbe accelerare la corsa verso il basso dei consumi. In questa direzione, sono arrivati segnali negativi dai due maggiori utilizzatori di petrolio, Usa e Cina, che hanno registrato ribassi negli indici di fiducia dei consumatori. Sul lato dell'offerta, l'Opec ha continuato a non mostrare una linea unitaria. Secondo il ministro del petrolio algerino Chakib Khelil, il taglio della produzione è «probabile» nella prossima riunione del 15 marzo. Di parere opposto il collega iraniano, Gholam Hossein Nozari: «L'Opec ha implementato già l'80% delle riduzioni annunciate, evitando così una frenata ancora più netta dei prezzi», ha spiegato. Nelle borse mondiali sono scesi tutti i titoli petroliferi, tra cui l'Eni di Paolo Scaroni (-7,7% a 14,64 euro). La flessione del petrolio è dovuta anche al rafforzamento del dollaro, che penalizza il valore delle commodity scambiate nella valuta americana. L'oro ha resistito meglio, grazie al suo ruolo di bene rifugio. La quotazione ieri è rimasta stabile a 939 dollari all'oncia, dopo aver toccato quota 950. Tra gli investitori interessati a proteggersi dalle turbolenze dei mercati ci sono anche gli Stati, che stanno aumentando l'esposizione sul metallo giallo, facendo così salire i prezzi. Il governo cinese è il più attivo: «Su 2.000 miliardi di riserve, soltanto l'1% è investito in oro, mentre la parte restante è quasi tutta impiegata in dollari», ha spiegato a Reuters Marcus Grubb, presidente del World Gold Council. «Ma alla luce del possibile declino della moneta Usa, dovuto alla recessione e ai piani di salvataggio di Barack Obama, la Cina potrebbe ridefinire la politica d'investimento».