Fino a oggi era stato solo evocato da alcuni dossier dei servizi segreti e dal presidente della Consob, Lamberto Cardia. Ma la paura che i valori di borsa possano scatenare appetiti pericolosi è stata messa ieri nero su bianco in una sentenza importante. La Corte di Giustizia europea ha infatti condannato in via definitiva l'Italia per aver violato i principi sulla libertà di stabilimento e di circolazione di capitali dettati dagli articoli 43 e 56 del Trattato Ue con la legge del 2004 sulla golden share. E nella memoria depositata dall'Avvocatura dello Stato (avvocato Paolo Gentili), tra i motivi che hanno spinto l'allora governo Berlusconi a varare la misura anti-scalate nelle società più importanti di interesse nazionale (Eni, Enel, Telecom Italia e Finmeccanica), si fa proprio esplicito riferimento al rischio di scalate ostili. Il caso è riportato per l'esattezza al punto 49 della sentenza della Corte (terza sezione, presidente A.Rosas) con cui si è data ragione alla Commissione europea. «Nelle sue memorie», si legge nel testo della sentenza appena depositato, «la Repubblica Italiana non ha prodotto alcuna prova e neppure alcun indizio che l'applicazione dei criteri controversi per l'esercizio dei poteri di opposizione permetta di conseguire gli obiettivi perseguiti. Durante l'udienza», proseguono i giudici, «lo Stato membro (l'Italia, ndr) ha menzionato l'eventualità che un operatore straniero legato a un'organizzazione terroristica tenti di acquisire rilevanti partecipazioni in società nazionali in un'area strategica». E il pensiero va ai fondi sovrani, più volte evocato da Silvio Berlusconi. C'è di più. Sempre l'Italia ha sostenuto davanti alle toghe europee che esiste anche la «possibilità che una società straniera che controlli reti internazionali di trasmissione di energia (si pensi a un gasdotto) e che, in passato, si sia avvalsa di detta posizione per creare gravi difficoltà di approvvigionamento a paesi limitrofi, acquisisca azioni in una società nazionale. Secondo tale Stato membro, la sussistenza di precedenti di tale natura», continua la Corte, «potrebbe giustificare un'opposizione all'acquisizione, da parte di questi investitori, di partecipazioni notevoli nelle società nazionali considerate». L'Italia non fa alcun nome, ma in questo caso il riferimento sembra evidente: Gazprom, il colosso russo del gas da cui dipende tutta Europa per l'approvvigionamento di oro azzurro, più volte ha creato seri problemi al fabbisogno europeo, anche italiano, non ultimo quando ha bloccato a fine 2008 le forniture all'Ucraina, mettendo a rischio anche quelle destinate ai clienti dell'Unione europea. Un cliente scomodo, con cui l'Eni di
Paolo Scaroni è in solidi rapporti d'affari, ma che evidentemente non si vuole come socio nel capitale. Queste considerazioni non sono però bastate ai giudici che, pur riconoscendo i «motivi di pubblica sicurezza» addotti, hanno imputato all'Italia di non aver provato l'esistenza di «una minaccia effettiva e sufficientemente grave». Il Tesoro, a cui è stato però riconosciuto il «potere di veto» nei confronti dei paesi extra-Ue, e dunque la Russia, ora dovrà pagare le spese legali e decidere come rivedere la normativa sulla golden share.